Antonioni, “I film che non ho girato”

23-11-2013

Mario Serenellini su La Repubblica scrive questo articolo , per i 100 anni di Michelangelo Antonioni.
«Un film non impresso su pellicola non esiste — era solito ripetere — E le sceneggiature son funzioni del film: non hanno autonomia, sono pagine morte». Michelangelo Antonioni aveva sperimentato fin troppo bene la tormentosa inesistenza d’un film soltanto pensato o «scritto», la doppia beffa d’un’opera che c’è e non c’è, che c’è senza esserci. Il suo è per la maggior parte un cinema fantasma. A fronte dei pochi titoli realizzati in una vita quasi centenaria — sedici lungometraggi, una ventina di corti — una valanga di progetti, tra il 1945 e il 1985, rimasti sulla carta: almeno venti lungometraggi e, tra corti e lunghi, venti documentari in soli cinque anni (1945-’50). Senza contare i soggetti divenuti film di altri (“Caro Ivan”, del 1949, sui miraggi dei fotoromanzi, «che Carlo Ponti mi comprò per due soldi dandolo a Fellini, che ne fece “Lo sceicco bianco”»), la collaborazione a vari titoli di Visconti (“Furore” e “Il processo di Maria Tarnovska”) e quel mare di «pagine morte» che sono le sue idee e ipotesi di cinema.

La sua esistenza è stata scandita da un cinema in stand by: talora realizzato, ma il più delle volte rimasto un abbaglio, una visione illusa, di cui solo il suo sguardo ha trattenuto la traccia, sempre viva e interrogativa. Come se “Blow-Up”, dove un clic capta il segreto che la realtà cancella, fosse non un suo film ma la sua vita. E chissà se una rassegna del suo cinema «invisibile» — immagini suggerite da parole, dattiloscritti, correzioni — non sarebbe stata più «antonioniana», nonché rivelatrice, della retrospettiva che, per il centenario della nascita (29 settembre 1912), si svolgerà dal 27 alla Cineteca di Bologna.

Fatalmente, nel suo cinema, sia realizzato che irrealizzato (al cui viavai dedica un denso saggio l’amico e collaboratore storico Carlo di Carlo, nel volume di Cinecittà International del ’92, in occasione dell’omaggio al Louvre), la sparizione è ricorrente: oltre al black out, in “Blow-Up”, del cadavere (e del rullino), lo svanire nel nulla dell’amante in “L’avventura”, la sostituzione d’identità in “Professione: reporter”, l’appuntamento lasciato morire nel vuoto in “L’eclisse” (che è già un astronomico sparire e riapparire). Ma è nella filmografia parallela, nel limbo del suo cinema senza ciak, che il leit motiv si fa più tagliente. In “Stanotte hanno sparato” (1949) — che sarebbe dovuto essere il lungo d’esordio, prima di “Cronaca di un amore” — nelle righe iniziali del dattiloscritto il cadavere, alla seconda occhiata della giovane alla finestra, è già scomparso. In un progetto tra i più rimpianti, “Tecnicamente dolce” (1966), «ambientato nella foresta vergine dell’Amazzonia, la più terrificante e meno fotogenica al mondo», nell’intrico impermeabile alla luce del sole «i personaggi rischieranno l’invisibilità». E quel che affascina Antonioni nel conradiano “La ciurma”, annunciato fin dal 1977, a favore del quale s’era battuto anche Martin Scorsese, è il mistero mai risolto del fatto di cronaca cui s’ispira il soggetto, scritto con Mark Peploe: uno yacht alla deriva nelle acque australiane, tre uomini rinchiusi per giorni nella stiva dallo skipper che, una volta risaliti sul ponte, non troveranno più.

La gran matassa di film irrealizzati ribadisce i temi di predilezione del regista: prima di tutto, l’universo femminile, esplorato in ogni suo aspetto. Tra i documentari mancati: “Modelle”, “Entraîneuses”, “Indossatrici”, “Balletto”, “Le donne di tutti”, “Conventi di clausura”, da cui svilupperà con Tonino Guerra nel 1981 “Questo corpo di fango”, divenuto nel 1995 il quarto episodio di “Al di là delle nuvole”. Tra i progetti di fiction: “Liliana ha fatto poker” (1952), scritto con Suso Cecchi d’Amico, “Il bacio di Lesbia” (1954), con Ennio Flaiano, “Emanuela” (1965), con Calvino, Furio Colombo e Guerra, “Sotto il vestito niente” (1984), dal bestseller di Marco Praga, che la produzione, per l’unanime «vade retro» degli stilisti milanesi al cineasta, si affrettò a dirottare sui Vanzina, con i noti risultati. Ma l’Antonioni sconosciuto riserva anche gustose sorprese: un’inattesa indulgenza per la comicità più popolare (il soggetto scritto per un film di Totò, “Totò e il cadavere”, di cui ha poi sempre taciuto) e l’inclinazione a uno humour mentale, aritmetico, di marca anglosassone, quando si fa tentare («in un momento di disperazione») dall’adattamento di poesie di Ray McNiece o dei capitoli iniziali della “Introduzione alla filosofia matematica” di Bertrand Russell. Del primo gli frullano in testa da tempo versi che «potrebbero divenire il nocciolo d’un film comico, orientandone già lo stile: “Pensate a un numero/, raddoppiatelo/, triplicatelo/, elevatelo al quadrato/ e cancellatelo”». (Di nuovo, la sparizione…). Del testo di Russell, «molto serio, ma ricco di trovate comiche», l’attirano passaggi del tipo: «Il rapporto uomo-donna è l’inverso del rapporto donna-uomo». Al regista «pare già di vederle, quelle due coppie a rovescio e gli amici e le situazioni con cui avrebbero a che fare».

La parte sommersa dell’iceberg Antonioni rivela infine la lucidità silenziosa, solitaria d’una coscienza cinematografica che in più casi ha anticipato i tempi, a partire da “Gente del Po”, girato nel 1943 — negli stessi giorni e non lontano dal set di “Ossessione” di Visconti — che sarebbe stato il suo primo film e il primo film neorealista, se la pellicola, deterioratasi in quegli anni di guerra, non fosse risultata in gran parte inservibile, consentendo solo il montaggio, nel ’47, d’un corto di nove minuti. Perso il primato neorealista, il regista avrebbe potuto tenerne a battesimo la filiazione rosa se gli avessero lasciato girare “Pane e fantasia” del ’51 sul milieu del cinema romano, che, con l’aggiunta di amore e della Lollobrigida, avrebbe inaugurato il filone due anni dopo. Oltre a movimenti e mode, la sua libertà d’indagine e l’occhio rapace gli han fatto cogliere umori esplosi poi in almeno due film d’autore. Le allegre ragazze del ’24, sul fascismo vissuto in provincia dai giovani ignari come una piacevole mascherata, poteva esser già, vent’anni prima di Fellini, un “Amarcord” ferrarese. Mentre “Lolita” di Kubrick nel ’62 fece pentire Ponti di non averne prodotto il prototipo italiano, “Ida e i porci”, su una contadinella che si prostituisce, scritto con De Concini e Sonego nel ’56.

Parlando dei suoi protagonisti, sempre frenati, galleggianti in un’eterna sospensione, Antonioni evocava Freud: ognuno di noi, limitato da mille condizionamenti, oppresso da quel che si definisce normale, «non è che un’ombra di quel che potrebbe essere». È la spiegazione del suo cinema dimezzato, d’una produzione debordante diminuita dalle «regole» in un’umiliante impotenza: quel che s’è salvato è l’ombra d’un maestoso naufragio. O il suo occultamento, la sua eclisse.

(16-09-2012) Michelangelo Antonioni

http://trovacinema.repubblica.it/news/dettaglio/antonioni-i-film-che-non-ho-girato/421759

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