Olimpia Sartorelli Due testi sul cinema di Michelangelo Antonioni

17-06-2019

Ringraziamo la studiosa, Olimpia Sartorelli per questi suoi preziosi interventi.

Due testi sul cinema di Michelangelo Antonioni

Olimpia Sartorelli *

Diceva Michelangelo Antonioni, di aver perduto con la maturità il coraggio dei sentimenti. Tuttavia il suo cinema non sembra mai perdere il coraggio di rappresentarli. Dei sentimenti più intensi e dei più sottili, delle emozioni brucianti e di quelle appena accennate parla costantemente tutto il cinema di Antonioni, straordinaria finestra sullinteriore umano.

I due scritti che seguono cercano di mettere in evidenza come sia possibile leggere alcuni tra i più noti film del regista come rappresentazioni poetiche dei conflitti psichici che animano lesistenza umana. La ricerca incessante di un senso da dare allesistenza attraverso immagini in cui esprimere il mondo interiore lega intimamente il cinema di Antonioni alluniverso delle arti visive in dialogo con alcune riflessioni della psicoanalisi.

Michelangelo Antonioni, desiderare – distruggere

Olimpia Sartorelli

(testo presentato in occasione delle Tavole Rotonde sulla distruttivita’ psichica organizzate da Clinamen, ricerche psicoanalitiche, associazione culturale a cura di Maurizio Balsamo e Fabio Fiorelli, il 21 gennaio 2017 a Roma. www.clinamenricerche.com)

“… ho tentato di allungare le prospettive, di mettere aria tra gli esseri e le cose.”

M. Antonioni, 1967

Una sequenza crescente di esplosioni di oggetti di uso comune sotto il sole allo Zenith del deserto californiano chiude Zabriskie Point, uno tra i film più noti di Michelangelo Antonioni.

Poco prima nella vicenda narrata dal film, una storia d’amore, dalle rocce dello stesso deserto prende vita una moltitudine di corpi di uomini e donne stretti in amplessi appassionati. Questi due momenti chiave del film, resi in sola immagine e musica, privi di parola, sembrano porsi in contrappunto l’uno rispetto all’altro, come a rappresentare un movimento incessante e necessario tra un tempo di costruzione di relazioni, forme, legami e un tempo di distruzione di ciò che si è tenuto o si tiene insieme. Quasi a fornire una rappresentazione iconica e contemporanea di quell’impasto tra pulsioni di vita (o di legame) e pulsioni distruttive (o di dissoluzione del legame) rielaborato in teoria del funzionamento psichico da Freud (Freud,1920).

In Zabriskie Point tra i due momenti l’accento cade maggiormente sulla rappresentazione della distruzione deflagrante con cui si chiude il film, dal finale (come spesso in Antonioni) aperto. L’esplosione lascia dietro di sé un orizzonte sgombro, illuminato da un sole al tramonto dentro il quale la protagonista femminile può riprendere il suo viaggio, la sua strada, forse potremmo anche dire il suo racconto. È un orizzonte segnato dalla distruttivita’, dalla morte che apre però uno spazio a nuove costruzioni, nuove vite.

Considerando il posto che occupa in Antonioni la rappresentazione della distruttivita’, intesa congiuntamente come psichica e ambientale, si potrebbero individuare due livelli: un livello formale, che riguarda lo stile e le modalità di narrazione cinematografica e un livello di contenuto, attinente alle storie e ai personaggi a cui il regista dà vita.

Su un piano formale la scelta registica di Antonioni fu sempre in favore dell’immagine a scapito della parola. L’immagine nella sua qualità estetica diviene in Antonioni la rappresentazione più idonea dei movimenti psichici umani, mentre la parola, ridotta al minimo, in scarni dialoghi dai tratti poetici (ricordiamo la lunga collaborazione con Tonino Guerra o con Ennio Flaiano) è la prima vittima della necessità di una distruzione creativa. Lo stesso racconto per immagini risulta a sua volta frantumato nella sequenzialita’ logica, propria del discorso verbale.

Tinazzi mette in luce come Antonioni decostruisca la narrazione attesa mettendo: “in discussione l’usuale principio di causalità a favore di una distensione degli avvenimenti sullo stesso piano, in quella che potrebbe essere definita la compresenza dei fatti”, nel tentativo di realizzare in questo modo un racconto nuovo, che recuperi “alla significazione le componenti accidentali, i tempi morti, gli elementi casuali. Il legame tra le sequenze è ottenuto spesso per analogia, la narrazione talora si frantuma in brani non collegati secondo stretta necessità ” (Tinazzi, 1995, p.52).

L’immagine significante si costituisce così a partire da un vuoto. Sembra possa emergere solo facendo vuoto attorno, silenziando, eliminando ogni elemento circostante, come se “sgorgasse dal deserto” (Beghin, 2007), non a caso paesaggio elettivo dei film di Antonioni.

Quel deserto, spazio fisico, diviene a tutti gli effetti spazio psichico, ne è lo specchio, la continuazione. In Professione: Reporter il protagonista, perso nel deserto africano, dice di “preferire gli uomini ai paesaggi” ma il suo compagno di viaggio gli fa notare come “ci sono tanti uomini che vivono nel deserto”. Non esiste quindi contrapposizione tra uomini e paesaggio, essi finiscono per costituire un tutt’uno psicofisico da cui emergono fenomeni, salienze, apparizioni; un apparente continuum indistinto in attesa del proprio big bang.

Prima del deserto naturale nel cinema di Antonioni compare il deserto industriale, un deserto umano, non solo perché fatto dall’uomo ma perché specchio fedele della desertificazione soggettiva. Ne “Il Deserto rosso” Antonioni racconta l’annientamento psichico di una donna nel paesaggio padano annientato dai fiumi e dai liquami tossici dell’industria. A nulla vale il desiderio di un amante per rendere la vita (psichica) a Giuliana, lei non può che rivendicare la propria follia come unico mezzo per uscire, o potremmo dire distruggere, il deserto del conformismo indifferente (il paesaggio uniformemente grigio) in cui è immersa. “Deserto, forse perché non ci sono più molte oasi. Rosso, perché è il colore del sangue. Il deserto sanguinante, vivente, pieno della carne degli uomini”, così Antonioni commenterà il titolo del film.

La ricerca di una nuova identità o meglio il ritrovamento “per via di distruggere” di una soggettività più autentica accomuna la protagonista di Deserto rosso al giornalista di Professione: Reporter. Quest’ultimo, approfittando della morte improvvisa in pieno deserto, del vicino di camera d’albergo, ne assume l’identità. Il deserto gli permette lo scambio, fa precipitare la decisione, l’ultimo tentativo di risentirsi vivi. Nel “diventare l’altro” David cancella anagraficamente se stesso, riappropriandosi, anche se solo per poco, del brivido del rischio vitale.

In Antonioni la distruzione è sempre un “affare a due”. Molti dei suoi film narrano vicende di coppie; coppie intense, di breve durata (Daria e Mark in Zabriskie Point, David e la giovane studentessa senza nome in Professione: Reporter), coppie agonizzanti (Giuliana e Ugo in Il Deserto rosso, Lidia e Giovanni in La Notte) coppie libere (Thomas e Jane in Blow up). Forse a significare che distruggere è essenzialmente una modalità di comunicare all’altro, in alcuni casi l’unica possibile per uscire dall’impossibilita’ di comunicazione con l’altro. Nella relazione a due il bivio tra quiete annichilente e deflagrazione sembra essere spesso obbligato e rimette in discussione costantemente i limiti tra il sentirsi vivi e il sentirsi morti.

In La Notte, Giovanni,di ritorno dalla visita in clinica ad un amico in fin di vita, confessa alla moglie Lidia di essersi lasciato sedurre da una giovane paziente isterica, vicina di stanza dell’amico malato. Al racconto del marito Lidia risponde serafica: “Un fatto così puoi farci un bel racconto, intitolato: i vivi e i morti.” Nello scambio sembra che entrambi i coniugi rivolgano l’uno all’altra, senza comprendersi, la medesima domanda: “noi siamo vivi o morti?”. L’intero film sembra costruito sui riflessi, su immagini riflesse: i riflessi dei grattacieli milanesi, i riflessi della finestra al capezzale dell’amico, i riflessi delle vetrate della villa, scenario di quella “notte” in cui precipiterà il precario equilibrio matrimoniale di Lidia e Giovanni. Una vita di riflesso è quella di Lidia e Giovanni, un riflesso che entrambi, ognuno a suo modo cercano di rompere per tutta la durata del film, invocando in sequenza: la morte, la passione, la disperazione (l’abbraccio affamato tra i due della fine) come movimenti per riconcimare la vita.

Qui come altrove Antonioni mostra con eleganza sottile i due volti complementari della distruttivita’ psichica: il volto interiore dei sentimenti depressivi e il volto esteriore del gesto aggressivo; la distruzione di sé, compagna della distruzione dell’altro.

Così le esplosioni finali di Zabriskie Point sono allo stesso tempo, atto terroristico anticonformista e rêverie distruttiva, gesto concreto e espressione psichica della rabbia vendicativa di Daria e insieme del suo pianto per la morte ingiusta subita dal suo giovane amore Mark. Una rabbia, un dolore, una distruzione che qui come altrove sgombrano il campo, preparano il nuovo. Il “No” finale di Daria è un “No vitale” che, ricordando Balsamo, “indica il piacere di privarsi del soggetto, il momento in cui egli si sbarazza delle forme e delle identità che ha acquisito nel tempo, per rendersi immobile, confondersi con lo sfondo, spogliarsi, divenire una terra vergine, da cui, forse, una nuova esistenza potrebbe prendere origine, un nuovo e differente racconto svilupparsi (Balsamo, 2016, pp.10,11). Un “No” primigenio che sembra esprimersi al meglio, come Antonioni sembra aver pienamente colto, in immagine o in uno “spazio che precede la parola, che si dà prima di essa e che forse ad essa, quando si giunge, non arriva che in minime parti, ma che nondimeno segnala grumi di storia, elaborazioni soggettive di un messaggio” (Balsamo, 2016, p.9). Zabriskie Point si apre con le poche parole di Mark, minime quanto intense, che anticipano l’essenza del “No vitale” celebrato alla fine del film in immagini: “anch’io sono pronto a morire… ma non di noia!”. La battuta ricorda la chiosa di Majakowski: Meglio infatti morire di vodka che di tedio!, a memoria di come l’anormalità, e forse potremmo dire in questo caso la distruttivita’, “sia fonte di creatività necessaria alla sopravvivenza per molti di noi” (Fiorelli, 2016, p.11).

In Antonioni l’estetica profonda e silenziosa del racconto cinematografico comunica con straordinaria appropriatezza di forme quanto il distruggere sia necessario per poter immaginare (Bollas, 1999). Un distruggere che sembra vicino a quel “mettere aria tra gli esseri e le cose”, caro ad Antonioni (in Tinazzi, 1995, p.20), evocando uno spazio necessario al dispiegarsi del desiderio e del senso soggettivamente autentico di vitalità.

Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point: l’arte del vuoto

Olimpia Sartorelli

(testo tratto da Eidos, rivista di cinema, psyche e arti visive, n.38, luglio-ottobre 2017. www.eidoscinema.it)

Esiste un luogo nel deserto californiano, opera d’arte naturale, dove in un tempo geologico sorgeva un lago, poi evaporato, lasciando basse montagne di sedimenti cristallini dai colori mutevoli secondo la luce del sole; a questo luogo Antonioni dedica uno dei suoi più celebri film: Zabriskie Point (1970). Qui come altrove, il regista sceglie il deserto come migliore scenario per rappresentare la vita.

Paradosso solo apparente se si considera che ciò che preme ad Antonioni è in primo luogo cercare di rappresentare forme di vita “nascosta”, vita psichica, eminentemente umana. Il deserto, spazio fisico, diviene così, a tutti gli effetti spazio psichico, ne è lo specchio, la continuazione. Solo entro questo orizzonte sgombro, dai grandi vuoti, resi allungando il più possibile le prospettive, sembra possano venire alla luce, rendersi visibili: emozioni, relazioni interne, immagini, pensieri, conflitti, odio e amore, creatività e distruzione. Il vuoto costantemente prodotto nei paesaggi si estende dallo spazio alla parola, l’immagine silenziosa prevale sul verbo, la musica sul discorso, sempre il vuoto sul pieno.

La storia narrata è una storia d’amore. Quasi vicenda archetipica di ogni forma possibile di relazione, una storia d’amore tragica, scandita in due scene cardine del film che ne mostrano l’essenza emotiva. Circa a metà della narrazione nel lago divenuto deserto, Daria e Mark, i due protagonisti, si incontrano in una sessualità appassionata che il regista riverbera poeticamente nelle rocce del paesaggio, da cui prendono vita innumerevoli coppie di amanti stretti in amplessi intensi e giocosi, colorati dalla terra argento-ocra del deserto. Al tempo dell’unione creativa succede la dissoluzione drammatica del legame, la morte del protagonista e il dolore di Daria per la fine ingiusta dell’amato, mirabilmente reso nelle celebri esplosioni delle scene finali del film. Nello stesso deserto, sotto la luce abbacinante di un sole allo Zenith una serie di architetture e oggetti di uso comune esplodono in sequenza crescente, tra gesto terroristico e immaginazione distruttiva, accompagnando il pianto di Daria, esprimendone il disperato scenario psichico luttuoso, tra rabbia e dolore. I due momenti al cuore del film, sgorgano dal deserto e da quel “vuoto” ricavano la loro intensità espressiva, la possibilità di comunicare la loro intima natura. In successione sembrano rievocare in forme contemporanee quell’impasto tra pulsione erotiche di vita e pulsioni distruttive di morte, strettamente legate e alternate in prevalenza, rielaborato in teoria del funzionamento psichico da Freud (Freud S., Al di là del principio di Piacere,1920).

Le arti figurative, non estranee ad Antonioni nella costruzione dei suoi film, promossero fin dai tempi antichi un’estetica del vuoto. Analogamente ai corpi animati dalle nude rocce di Zabriskie Point, le opere scultoree di Michelangelo, sono “liberate” dal blocco marmo “per via di levare”, facendo vuoto materico intorno che permetta all’idea/immagine di emergere, prendendo forma, trovando un profilo. Allo stesso modo in pittura i celebri “azzurri” di Leonardo, che annullano in macchia di colore i fondali sono necessari a far risaltare la figura dipinta e il suo enigma interiore (dalla Gioconda alla Sant’Anna con Madonna e Bambino). Non ultimo, molto vicini all’America deserta di Antonioni, i dipinti di Hopper, i cui scorci di città ricordano quasi in modo letterale i paesaggi urbani presenti a tratti in Zabriskie Point, si costruiscono per grandi vuoti, con pause formali in cui risalta ogni minimo umano dettaglio, gesto o spiga mossa dal vento.

Come tutto questo non sia estraneo al movimento psichico, alla possibilità di renderlo visibile e metterlo in forma, è lo stesso Freud a ricordarlo, auspicando che la psicoanalisi, a differenza dell’ipnosi, suggestiva e incatenante, proceda per via di levare e non di porre, preferendo l’assenza dello sguardo all’esame “obiettivo”, il silenzio dell’analista alla parola, l’incompiuto e l’incerto al saturo edefinito(Freud S., Psicoterapia, 1905). Il vuoto nelle sue varianti di silenzio e di insaturo si pone così come materia prima, fertile terreno di coltura del mondo interno nelle sue forme e trasformazioni. Alla possibilità di vedere l’interiore si lega necessariamente la sua possibilità di cambiamento e evoluzione di forma, come dalla comparsa del germoglio procede lo sbocciare del fiore. Perché la vita psicofisica possa rappresentarsi e dispiegarsi, è necessario uno spazio vuoto, rinnovato ad ogni scomparsa di forma vivente. Se il deserto come ricorda Mark “è morto”, o piuttosto sembra tale, Daria in risposta non finisce di contarne “serpenti e lucertole” per poi passare ai “conigli selvatici”, immaginandovi idee come piante, ordinate soggettivamente in giardini o selvagge “come felci e rampicanti”. Così, dopo la morte di Mark, la storia di Daria potrà ricominciare dall’orizzonte libero di un cielo al tramonto che grazie al deserto e oltre il deserto può continuare a vivere.

Bibliografia

AntonioniM., Biografia, in Associazione Michelangelo Antonioni, www.michelangeloantonioni.info.

Balsamo M. (2016), Vie di scampo, testo presentato nell’ambito del Seminario permanente di clinica psicoanalitica: “Distruzione della vita psichica”, Roma, 5 novembre 2016.

Beghin C. (2007), La charge fantastique, in Michelangelo Antonioni, Cahiers du Cinéma hors-série, Parigi, 2007.

Bollas C. (1999), ll Mistero delle Cose, Milano, Cortina, 2001.

Bonitzer P. (2007), Désir désert, in Michelangelo Antonioni, Cahiers du Cinéma hors-série, Parigi, 2007.

Fiorelli F. (2016), Attraversati dall’altro, testo presentato nell’ambito del Seminario permanente di clinica psicoanalitica: “Distruzione della vita psichica”, Roma, 5 novembre 2016.

Freud S. (1920), Al di là del Principio di Piacere, OSF, 9.

Jullien F. (2012), Cinq concepts proposés à la psychanalyse, Chantiers, III, Parigi, Grasset & Fasquelle.

Tinazzi G. (1995), Michelangelo Antonioni, Milano, Il Castoro.

 Filmografia

Antonioni M. (1961), La Notte.

Antonioni M. (1964), Il Deserto Rosso.

Antonioni M. (1966), Blow Up.

Antonioni M. (1970), Zabriskie Point.

Antonioni M. (1975), Professione: Reporter.

* Olimpia Sartorelli

 Psicologa, Candidata della Società Psicoanalitica Italiana. Giunge all’attività di psicologa in seguito a una prima laurea in Storia dell’Arte e dagli inizi della sua attività professionale ha sempre coniugato l’interesse e lo studio delle arti visive all’attività psicologico clinica. Si è occupata di traduzione dal francese e curatele di testi d’arte e di design (tra i quali: Christine Colin, Il Viaggio di Francesco Binfaré attraverso il design dagli anni 60 a oggi, 2018, Electa, Milano; Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point, l’arte del vuoto, Eidos, rivista di cinema e psyche, luglio-ottobre 2017; Rainer Maria Rilke su Rodin, Introduzione alla corrispondenza e traduzione dal francese, 2009, Abscondita, Milano). Per il sito web della Società Psicoanalitica Italiana ha scritto testi sul cinema di Jaques Rivette. Vive e lavora a Parigi e a Milano.

Olimpia S.

Immagine.png Olimpia S. 2

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