Caro Antonioni… di Roland Barthes

24-01-2013

     1 Gennaio 1980

     Il sindaco Renato Zangheri consegna nell’Aula dello Stabat Mater       “l’Archiginnasio d’oro” per l’anno 1979 a Michelangelo Antonioni per il suo impegno nel cinema neorealista. Oratore ufficiale della celebrazione è il critico e scrittore francese Roland Barthes.

 

 

 

 

 

Nella sua tipologia, Nietzsche distingue due figure: il prete e l’artista. Di preti, ne abbiamo oggi da vendere; di tutte le religioni e anche senza religione; ma di artisti?

Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità.

Contrariamente al prete, l’artista ammira e si stupisce; il suo sguardo può essere critico, ma non è accusatore: l’artista non conosce risentimento. Proprio perché tu sei un artista la tua opera è aperta al Moderno. Molti prendono il Moderno come una bandiera di combattimento levata contro il vecchio mondo, i suoi valori compromessi; ma per te, non è il termine statico di una facile opposizione; anzi il contrario, il Moderno è la difficoltà attiva di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all’interno di quella piccola Storia di cui è misura l’esistenza di ciascuno di noi. Cominciata all’indomani dell’ultima guerra, la tua opera si è così rivolta, di momento in momento, secondo un doppio movimento di vigilanza, al mondo contemporaneo e a te stesso; ognuno dei tuoi film è stato, a livello personale un’esperienza storica, l’abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova; il che significa che tu hai vissuto e trattato la storia di questi ultimi trent’anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui tu dovevi captare, di opera in opera, il magnetismo. Per te il contenuto e la forma sono storici allo stesso modo; i drammi, come tu hai detto, sono indifferentemente psicologici e plastici. Il sociale, il narrativo, il nevrotico, non sono che livelli, pertinenze, come si dice in linguistica, del mondo totale, che è l’oggetto di ogni artista: c’è una successione, non una gerarchia degli interessi. Per essere precisi, contrariamente al filosofo, l’artista non evolve; come uno strumento molto sensibile, egli percorre le successioni del Nuovo che la propria storia gli presenta: la sua opera non è un riflesso fisso, ma una moire su cui passano, secondo l’inclinazione dello sguardo e le sollecitazioni del tempo, le figure del Sociale o del Passionale, e quelle delle innovazioni formali, dal modulo narrativo all’impiego del Colore. La tua inquietudine per l’epoca non è quella dello storico, del politico o del moralista, ma piuttosto quella dell’utopista che cerca di scorgere su punti precisi il mondo nuovo, poiché ha voglia di quel mondo e vuole già farne parte. La vigilanza dell’artista, che è la tua, è una vigilanza amorosa, una vigilanza del desiderio.

Chiamo saggezza dell’artista non una virtù antica, ancor meno un discorso mediocre, ma, al contrario, quel sapere morale, quell’acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità. Quanti crimini l’umanità non ha commesso in nome della Verità! Eppure tale novità non è mai stata che un senso.

Quante guerre, repressioni, terrori, genocidi, per il trionfo di un senso! Lui, l’artista, sa che il senso di una cosa non è la sua verità; questo sapere è una saggezza, una saggezza folle, si potrebbe dire, che trae il sapere dalla comunità, dal branco dei fanatici e degli arroganti. Non tutti gli artisti, tuttavia, hanno questa saggezza; alcuni ipostatizzano il senso.

Tale operazione terroristica generalmente si chiama realismo. Così quando dichiari (in un’intervista con Godard): “Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici”, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film (uso ancora lo stesso termine) una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante» Roland Barthes

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