Quando Michelangelo si chiamava Nino. Ricordi di GAETANO TUMIATI

30-04-2013

FERRARA Rivista semestrale di cultura, informazione e attualità della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara 2002 Num. 17


L’eleganza, i duelli a tennis con Bassani, gli scritti sul “Padano”. E un grande amore. Breve storia di Antonioni giovane.

In occasione del suo novantesimo compleanno, Michelangelo Antonioni è stato celebrato con saggi critici che sottolineano la sua statura di regista, innovatore, maestro del cinema. Analisi serie e profonde che hanno, però, il difetto di presentarcelo come monumento. Ma qual è stata la natura umana di Michelangelo? Calda e ottimista, come vuole lo stereotipo dell’emiliano? Rigoroso, distaccato, perfezionista come si potrebbe supporre dai suoi film? In particolare – mi è stato chiesto – come si comportava e come appariva ai suoi concittadini ferraresi l’Antonioni degli anni Trenta, ai tempi dell’università o subito dopo, quando, in compagnia di qualche amico, passeggiava su e giù per corso Giovecca?
La risposta non è facile. Innanzi tutto, un particolare: nessuno allora lo chiamava Michelangelo; per tutti era sempre e soltanto Nino. E a questo doppio nome può darsi corrispondano due aspetti, entrambi veri, della sua natura e del suo carattere. Per la piccola cerchia dei suoi amici più stretti era un compagno estroverso e piacevole, sempre pronto allo scherzo, alla sferzante battuta dialettale, alle fugaci avventure amorose. Insomma, un giovanotto dal caldo sangue emiliano. Un’impronta, quella dell’emilianità, che anche in seguito tutti quelli che hanno avuto e hanno contatti con lui gli hanno sempre riconosciuto.

Tutti, tranne i ragazzi e le ragazze di Ferrara che, come me, facevano ancora il liceo quando lui stava finendo l’università. Noi, al contrario, giudicandolo dall’aspetto e dal comportamento, se non fosse stato per i capelli neri, ben pettinati, lo avremmo detto inglese. Alto, slanciato, profilo perfetto, pallido d’un pallore quasi esangue; voce sommessa, sulle labbra l’ombra di un perpetuo sorriso tra l’ironico e il malinconico, per noi, che pure lo chiamavamo Nino, era già Michelangelo. Una misura, la sua, sottolineata anche dall’eleganza nel vestire, quasi sempre di grigio, il suo colore preferito. “Non sopporto il marrone” gli sentii dire una volta davanti alla vetrina di una sartoria di Giovecca.
Sotto questa misura e questo raffinato “grigiore”, si intuiva, tuttavia, il fremito di una continua tensione muscolare e nervosa che scaturiva, ogni tanto, in drastiche affermazioni, in perentori rifiuti o anche in quel suo caratteristico tic che lo costringeva a uno scatto leggero del capo, come a cacciare una mosca fastidiosa dalla punta del naso o del mento. Insomma, un personaggio molto simile ai protagonisti dei suoi film, da “L’Avventura” a “Professione Reporter”, fatto apposta per affascinare le ragazze “bene” di Ferrara di quei tempi, che sognavano un ballo con lui ai tè danzanti di Palazzo Roverella.

Michelangelo Antonioni in un'immagine degli anni Trenta.Noi ragazzi, invece, lo ammiravamo per la sua abilità di tennista e per il fatto che era il critico cinematografico del quotidiano di Ferrara, il “Corriere Padano”, nonché il regista della piccola compagnia teatrale del Guf che teneva i suoi spettacoli al Teatro Pepoli di via Contrari.
Verso la metà degli anni Trenta, il tennis era già notevolmente diffuso a Ferrara, anche se limitato agli ambienti borghesi. Sui campi di terra rossa del Circolo Marfisa, sul retro della famosa palazzina estense, si alternavano – tutti in divisa bianca, molti ancora con i pantaloni lunghi, stirati a dovere – diversi buoni giocatori, alcuni dei quali destinati a diventare famosi in altri campi: Giorgio Bassani, Lanfranco Caretti, Luciano Chailly.

Ma in quel periodo, il numero uno, il campione cittadino era senza dubbio lui, Nino. Spesso succedeva che gruppi di altri giocatori interrompessero le loro partite per assistere a un suo incontro, specialmente quando doveva vedersela con Giorgio Bassani, il “numero due”, di quattro anni più giovane, destinato a succedergli nel primato. Difficile immaginare due stili più diversi: nervoso, imprevedibile, saettante quello di Antonioni; regolare, possente, inesorabile quello di Bassani. Mentre l’uno restava pallido anche dopo lo sforzo più spasmodico, l’altro si accendeva, diventava rossastro, emanava vapore.
Quando la fama di Nino tennista cominciò a declinare – laureato in economia, ormai preso da un lavoro non certo congeniale alla Camera di Commercio, aveva preso a trascurare il Circolo Marfisa – spuntò e crebbe quella di Michelangelo regista del teatro Guf e critico cinematografico del “Padano”. Come regista, potei seguirlo direttamente in una delle poche opere che riuscì a mettere in scena nel periodo immediatamente precedente lo scoppio della guerra: O di uno o di nessuno, di Luigi Pirandello, che aveva come protagonisti uno studente universitario, Mario Marracino, e mio fratello Francesco, all’ultimo anni di liceo.

Il regista, di solito, lo si immagina vulcanico e autoritario, pronto magari, come Giorgio Strehler, a saltare dalla platea sul palcoscenico per recitare lui stesso le tre o quattro battute che un attore, a suo parere, aveva sbagliato. Antonioni era esattamente l’opposto. Per tutta la durata delle prove se ne stava seduto in una delle prime file di platea, tranquillo, apparentemente distaccato, in realtà attentissimo. Poche, pochissime volte l’abbiamo visto scattare in piedi e gridare: “NO! NO! Così non va!”.

Perlopiù interrompeva gli attori con un gesto pacato, tornando a spiegare scrupolosamente il carattere del personaggio, la situazione scenica, i toni più caldi o più freddi, più concitati o più distesi che l’attore avrebbe dovuto adottare. E quando mio fratello Francesco gli chiese perché non salisse sul palcoscenico a mostrargli di persona come andassero dette quelle battute e fatti quei gesti, “Perché mai?” gli obiettò senza scomporsi. “Io sono il regista. L’attore sei tu.” Molti anni dopo, mentre girava La Notte, gli sentii dare la stessa risposta a Jeanne Moreau.

Misura e lucidità erano le note dominanti anche delle sue critiche cinematografiche sul “Padano”, che orientarono il giudizio di molti sull’epoca d’oro del cinema americano e francese. Anch’io, ormai arrivato ALL’università, con negli occhi la fisionomia leggermente tumefatta di Jean Gabin e la frangetta di Claudette Colbert, ero diventato quasi un cinefilo, e spesso discutevo di registi e attori con Nino – anzi, con Michelangelo – con cui da poco ero entrato in confidenza.

Antonioni nel 1931 al Tennis Club Marfisa.Se nel tennis, considerata la mediocrità del mio stile, non mi aveva mai preso in considerazione, nel cinema era venuto via via concedendomi una certa fiducia, tanto che, a un certo punto, avendo bisogno di un vice, pensò bene di fare il mio nome.
Non so se quel giorno, per me, sia stata maggiore la sorpresa o la soddisfazione. Il “Padano” era un giornale importante, considerato a Roma e anche all’estero, perché, pur soffocato dalla dittatura, rispecchiava le opinioni del suo fondatore e padrone, Italo Balbo, non sempre coincidenti con quelle di Mussolini. Inoltre, aveva come direttore un giornalista di vaglia, Nello Quilici, che aveva accettato in redazione anche intellettuali non in sintonia con il regime, come Massimo Fovel e Giulio Colmarino.

Fu, dunque, con una certa trepidazione che entrai per la prima volta negli stanzoni del “Padano”, in viale Cavour, che gli affreschi futuristi di Tato, nonostante i vivaci colori, rendevano più cupi. Ne uscii deluso. In caso di assenza di Antonioni, avrei potuto sostituirlo, ma di ufficializzare la mia posizione, neppure a parlarne; e tanto meno di un eventuale compenso. L’amministrazione del giornale mi fece sapere che si sarebbe limitata a rimborsarmi il prezzo del biglietto tutte le volte che avessi sostituito il titolare. Che quell’anno furono pochissime: se ben ricordo, videro la luce solo due o tre mie critiche, firmate “vice”.

Sul “Padano”, Michelangelo scriveva di tanto in tanto anche qualche elzeviro. In terza pagina si permetteva forse qualche aggettivo in più: leggeri tocchi pastello che non alteravano la sua tradizionale misura. Ricordo solo vagamente – son passati più di sessant’anni – le descrizioni di certe stradine di Ferrara, semideserte, pavimentate a ciottoli, fiancheggiate da muri sovrastati da grandi alberi.

Uno di questi elzeviri, però, lo ricordo bene: vi esprimeva con estrema delicatezza il sorgere, il dilatarsi, il divampare del suo amore per una dolce ragazza bionda di cui naturalmente non faceva il nome, ma che tutti in città individuarono immediatamente. Quell’elzeviro lo ricordo con grande emozione, quasi parola per parola, perché la ragazza era mia sorella Caterina, allora non ancora ventenne, morta nel 1979 in un incidente automobilistico.

Antonioni oggi.Quell’amore, contraccambiato sia pure con tutti i limiti e le riserve dell’epoca, arrivò ad assumere una certa ufficialità. Michelangelo cominciò a frequentare la nostra casa di via Palestro, accolto dai rossori di Caterina, dalle vivaci battute toscane di nostra madre e dalla misurata benevolenza di nostro padre, severo professore universitario che, pur esprimendogli stima, non nascondeva le sue perplessità per il futuro di chi intendeva tuffarsi in un mondo “caotico e inaffidabile” come quello del cinema.

Deciso e compito, Michelangelo ribadiva la serietà delle sue intenzioni, aggiungendo, però, che per dedicarsi al cinema era decisissimo a trasferirsi a Roma. Dove, infatti, di lì a qualche mese si trasferì, con grande dolore di mia sorella. La loro relazione, ridotta a uno scambio di lettere appassionate, durò a lungo, finché a travolgerla sopravvenne la guerra. Anni e anni durante i quali io, combattente in Libia e poi prigioniero nel lontano Texas, seppi poco o nulla della mia famiglia e di loro.

Nel 1946, quando tornai in Italia, Michelangelo a Roma stava già affermandosi come regista, e Caterina era a Ferrara, sposata a un medico e madre di un bambino di pochi mesi. Dal giorno della separazione non si erano più visti, né in seguito si videro mai.
Invece l’altra mia sorella, Roseda, che si interessava di cinema, e io, impegnatissimo nel giornalismo, abbiamo continuato a vederlo, purtroppo tutt’altro che spesso. Incontri radi, ma caldi e affettuosi, nei quali ha sempre tenuto a dimostrarci quanto siano vivi in lui i ricordi dei lontani tempi ferraresi.

Ma più commovente di ogni incontro fu il telegramma che ci arrivò il 13 ottobre 1979, ventiquattro ore dopo la tragica morte di Caterina. Diceva: “Roseda e Gaetano carissimi, un pezzo della mia vita se ne va con lei. Potete immaginare con quanto dolore partecipi al vostro lutto. Un abbraccio. Michelangelo.” Erano passati quarant’anni dalla loro separazione.

GAETANO TUMIATI

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