Antonioni su Antonioni: estratti da alcune interviste

2-05-2013

ANTONIONI: Per me il cinema non è sempre spettacolo. Non c’è nessuno che possa sostenere che il cinema è soltanto ed esclusivamente spettacolo. Il cinema può essere narrativa, perché no, chi lo impedisce? E allora così come ad uno scrittore è permesso di dilungarsi in certi tratti per analizzare meglio la psicologia di determinati personaggi, così io penso che nel cinema si possa fare altrettanto. Io sono contrario Mi sento veramente la stanchezza di determinati meccanismi ai quali ricorre il film convenzionale, la maggior parte dei film commerciali. Mi sembra che questo meccanismo sia falso. Io ritengo che la realtà abbia una cadenza diversa, la vita abbia una cadenza diversa. In certo momenti è precipitosa, in certi momenti è stagnante. E allora perché noi dobbiamo evitare i momenti stagnanti per occuparci soltanto di quelli precipitosi, di quelli rapidi. Se un film deve tener conto di quella che è la realtà nostra, nella quale noi viviamo, deve tener conto anche del ritmo di questa realtà, altrimenti si esce dal vero e si fanno delle cose  artefatte, false.”

(1965, dichiarazione rilasciata a Gianfranco Mingozzi sul set de Il provino, episodio de I tre volti)

 

ANTONIONI: il bianco e nero, già per conto suo è un mezzo che trasfigura la realtà, cioè quando i colori vengono eliminati come fa il bianco e nero e vengono tirati fuori certi rapporti tra chiari e scuri, tra certe sfumature, certi toni,  di per sé trasforma e porta questa realtà in un altro piano che è il piano appunto nel quale si svolge il film, diventa la realtà del film Il colore invece non fa che rappresentare naturalisticamente una realtà;  è più vero del bianco e nero. Ecco quindi che se io voglio utilizzare un paesaggio o un interno in funzione narrativa o in funzione psicologica, io ho bisogno di mettere in quel paesaggio e in quell’interno i colori che servono a quel momento psicologico ad esprimere un determinato stato d’animo, a dare una determinata suggestione. Qui il bisogno che ho sentito -  ed è un fatto che mi è venuto proprio incominciando a girare il film, non era previsto prima -  di intervenire, di “violentare” diciamo così, questa realtà per cercare di adattarla proprio ai fini della mia storia. Infatti si tratta di baracche, di pescatori, non di pescatori ma di gente che ama la pesca e che una volta andava lì a pescare e sono ormai abbandonate perché i pesci sanno di petrolio e perché non c’è più, sono morti, perché i canali sono pieni di rifiuti delle fabbriche, di schiume e di acidi. E dunque per dare questo senso io ho creduto opportuno tingere tutto quello che c’era intorno a me con un certo colore.  

(1963, dall’intervista di Pietro Pintus sul set di Il deserto rosso)

 

 

RAFFAELLA CARRÀ: Senti, quanto è importante secondo te la bravura dell’attore nel cinema?

ANTONIONI: È importantissima perché è uno degli elementi fondamentali dell’immagine. Non è quella più importante; ma nel contesto della composizione che noi chiamiamo “immagine” l’attore ovviamente, essendo un essere umano, è quello che quasi sempre predomina, per cui quindi deve rispondere in pieno alle esigenze del regista.

R.C.: Ti ho fatto questa domanda perché Eisenstein – sono vecchie reminescenze scolastiche –  metteva un piatto di pasta davanti a una faccia e quindi cambiava a seconda se la minestra fumava, te lo ricordi, no? Ecco, per lui evidentemente era importante  un taglio di viso, una faccia, non tanto un’interpretazione. Invece per te è diverso.

M.A.: No, lui diceva questo per dimostrare che il montaggio era molto importante. No, per me è importantissimo anche un attore, perché no. L’importante è trovare un accordo fra quelle che sono le esigenze della regia e quelle che sono le esigenze della recitazione. In questo senso il regista vede i suoi film nella sua interezza, nella sua unità, invece l’attore lo vede sempre dalla sua angolatura personale e molte volte ti fa dimenticare quello che è il film, quello che  è il filo narrativo.

R.C.: Certo, però un attore allora deve essere sempre, non dico sottostare al regista, ma quasi perché può perdere di mira il complesso dell’opera.

M.A.: Tu hai detto un verbo che se ti fermavi era perfetto: l’attore deve essere, non deve capire, deve essere. Se l’attore non è intelligente non ha alcuna importanza. L’importante è che sullo schermo abbia peso, abbia volume, e il pubblico insomma lo guardi, che lo stia a guardare. Che attiri l’occhio dello spettatore.

R.C.: E se è intelligente, è un disastro?

M.A.: No, non è un disastro, però… l’attore, con la tecnica, deve in un certo senso neutralizzare la sua intelligenza perché altrimenti rischia di diventare il regista di se stesso. E questo è un guaio.

(1985, dall’intervista di Raffaella Carrà a Pronto, Raffaella?)

 

 

 

MAURIZIO COSTANZO:  Cosa la diverte, nella vita?

ANTONIONI: Be, ci sono tante cose. Intanto il cinema: andarlo a vedere. Trovo che sia uno spettacolo meraviglioso e io credo di essere un ottimo spettatore. Addirittura se un film è commovente, mi vengono le lacrime agli occhi, poi cosa mi diverte, che devo dire? Entriamo in cose intime. Mi piace fare l’amore, questo è chiaro. A volte anche – non mangio molto – ma qualche cibo buono mi diverte. Mi diverte stare con degli amici divertenti.

M.C.: A proposito di uomini e donne ho letto in un’intervista che lei comunque, anche solo per parlare, preferisce parlare con una donna e non con un uomo.

M.A.: Perché, questo  l’ho detto molte volte, forse mi ripeto, ma perché secondo me la donna – ho proprio detto queste parole – è un filtro più sottile della realtà. La donna ha a che fare con il concepimento,  con la gestazione, ha a che fare con la luna. Ha a che fare di più col mistero dell’uomo, quindi nel rapporto con un uomo porta tutto questo suo fascino che nell’innamoramento, nel famoso innamoramento, conta. Secondo me la donna è più misteriosa dell’uomo e quindi è più sottile.

M.C.: Antonioni, lei crede in Dio?

M.A.: Questa è una domanda da cinquanta milioni. Dunque posso dare una risposta sola non basta. Tre, almeno tre. Si ricorda Laplace? quel famoso matematico, astrologo francese, l’abbiamo studiato a scuola tutti quanti. Be, c’è una bellissima risposta che lui diede a Napoleone, quando Napoleone gli chiese dopo avere letto, diceva lui, il suo trattato che si intitolava “Esposizione – mi pare – del sistema del mondo”: parlava delle origini del mondo, trattato nel quale Dio non era mai menzionato. Allora Napoleone gli chiedeva perché, e lui gli rispose “Sire, io non ho bisogno di questo genere di ipotesi”, che è una bellissima risposta.

Un’altra, un pochino più semplice che mi viene in mente, è in un romanzo di Hemingway, non mi ricordo più quale. Ad uno di questi personaggi chiedono “Ma tu credi in Dio?” e lui risponde, “Qualche volta, di notte”. Per essere un pochino più seri, senza ombra di ironia invece  quello che io posso dire è questo: a me sembra che nonostante tutti i crimini e le cose malfatte che succedono nel mondo, nel mondo esista, come posso chiamarlo, un proposito morale che ci assiste, che ci conforta. Be, se mi è consentito identificare questa entità chiamata Dio con questo proposito morale, be io ci credo in Dio.

(1985, dall’intervista a Maurizio Costanzo al  Maurizio Costanzo Show)

 

GIAN LUIGI RONDI: Mi sembra che se c’è una persona un autore una personalità un poeta che meglio di ogni altro oggi ci possa fare il punto sul cinema, nostra magnifica ossessione oggi, ma sul cinema di domani, sulla vitalità del suo avvenire, è lui che non solo cominciando col neorealismo, ma poi dopo con i film più difficili dell’incomunicabilità , e poi dal bianco e nero al colore e finalmente, solennemente, conquistandosi l’elettronica. Il primo regista che ha guardato al futuro del cinema capendo cosa poteva essere questa immagine che cambiava.

ANTONIONI: Se un regista potesse veramente seguire quella che è la linea del proprio pensiero, della propria ispirazione, del proprio bisogno di avventura cinematografica naturalmente, sarebbe meraviglioso, sarebbe veramente magnifica questa ossessione. Viceversa noi siamo frenati e, specialmente in Italia, siamo frenati da quelle che sono le nostre possibilità contingenti e da quelle che sono anche le invenzioni che ci viene consentito di avere, le intuizioni che ci viene consentito di avere. Nel senso che molte volte, proprio il nostro correre dietro al quotidiano limita la possibilità che avremmo di esprimerci in un modo molto più fantasioso, molto più ricco e anche molto più importante, come possono fare invece gli americani.

(…)

Oserei dire, e questo lo ripeto volentieri davanti ad un pubblico che probabilmente non me l’ha mai sentito dire che io credo che il cosiddetto “specifico filmico” e il cosiddetto “specifico televisivo” finiranno per congiungersi. Noi constatiamo che mentre da una parte ci sono delle grandi sale che si vanno spezzettando in tante piccole sale, e quindi gli schermi, da schermi enormi come sono, stanno diventando moto più piccoli, dall’altra vediamo che lo schermo televisivo sta diventando sempre più grande. Ormai questo apparecchio che io ho visto alla SONY è un apparecchio che permette di proiettare l’immagine su uno schermo di 2 metri e mezzo per 1,30 che può andare nelle case. E’ un apparecchio molto piccolo e ti proietta l’immagine perfetta. Quindi nel momento in cui lo schermo che entra nelle case e quello cinematografico avranno la stessa grandezza, non c’è più alcun bisogno di dividere quella che è la necessità espressiva della televisione da quella del cinema, saranno uguali. Quindi lo sfruttamento dei film non sarà lo stesso sia nelle case che nelle sale.

G.L.R.: Allora voi autori dove andrete?  Quale sarà insomma il domani del nostro cinema?

M.A.: Il nostro proposito sarà sempre quello di fare dei film, perché quello loro devono proiettare. Qual è invece la cosa importante da dire? È che l’elettronica sta facendo sempre in modo veramente inimmaginabile, dei passi da gigante. Io ho visto pochi giorni fa un computer tridimensionale che è l’unico che c’è oggi in Italia e che invece in  America è già stato usato da Spielberg, da Lucas. Per loro questo è il pane quotidiano. Certi effetti che non arriviamo neanche a capire come vengono fatti, come vengono realizzati, loro li fanno attraverso questo computer tridimensionale, che ti dà veramente l’impressione di entrare nella materia: per esempio una pallottola che fora un muro, loro possono seguire addirittura – guarda che non è fantascienza – il percorso della pallottola nel muro e ridartelo col movimento addirittura su uno schermo che corrisponda alla stessa invenzione di queste tre dimensioni del computer, ti danno l’impressione di qualche cosa di veramente fantascientifico.

Quindi  bisogna vedere quale sarà l’immagine della materia che noi avremo di fronte. Tu sai che la materia sta  diventando sempre  meno materiale, diciamo così. Qui bisognerebbe scantonare un po’ nel campo della scienza. Le teorie quantistiche che ci hanno insegnato che la materia è la fonte di una incertezza infinita e che quindi non abbiamo niente di sicuro, ma tutte le ricerche che si fanno oggi nel campo dell’energia nucleare sono ricerche che non hanno alcuna immagine, che non ti danno alcuna immagine. Sono dei circuiti, dove circolano elettroni, neutroni, neurini eccetera, che sono cose non visibili, per lo meno neanche con un telescopio.

G.L.R.: Ma tradotte nelle nostre immagini cinematografiche?

M.A.: Non è possibile. È appunto lì il problema. Cioè, non è che noi dovremo filmare queste cose perché è assolutamente impossibile, ma ci troveremo di fronte a dei concetti che costringeranno la nostra mente, la nostra immaginazione a produrre in immagini queste cose assolutamente impalpabili che avranno secondo me -  non parlo di un futuro immediato, ma parlo di un futuro abbastanza mediato, cioè decine di anni – avranno sicuramente un’influenza su quelli che saranno i rapporti umani, non c’è dubbio su questo. Perché una persona, per esempio… Facciamo il caso che io voglia raccontare la storia di un uomo che lavora in queste apparecchiature. E’ chiaro che il suo modo di esprimersi addirittura sarà diverso dal nostro, ci sarà una certa difficoltà. E quindi costringeranno noi e i nostri figli e i nostri nipoti ad adattarsi a questo nuovo, diciamo così, a un nuovo comportamento umano, un nuovo modo di esprimersi, a un nuovo sistema di comunicazione che sarà fatto anche di parole probabilmente diverse. 

 (1985, dall’ultima intervista a Gian Luigi Rondi per La magnifica ossessione: i novant’anni del cinema)

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